Veniamo da giorni difficili, in cui il dibattito sulla violenza di genere si è nuovamente infiammato, dopo la tragica vicenda di Giulia Cecchettin. Ma cosa resta di questo dibattito?
Premetto che parlerò di vittima al femminile poiché è un dato oggettivo che la violenza di genere è prevalentemente provocata da uomini, e solo in una esigua percentuale avviene il contrario. Di questo dibattito resta, innanzitutto, la ferma condanna di tutte quelle narrazioni che fanno passare il messaggio che in qualche modo la violenza può essere sminuita, giustificata o addirittura meritata dalla vittima. Frasi del tipo “non sarebbe successo se lei non avesse…” o del “aveva solo da andarsene” andrebbero abolite. Sono tutte narrative che non fanno altro che alimentare la cosiddetta cultura dello stupro e tutti quei processi di vittimizzazione secondaria, che vedono persone non direttamente coinvolte infierire ulteriormente sulla persona, relegandola ancora di più nella condizione di vittima.
Come bisogna agire davanti all’aumento dei casi di femminicidio?
Non si può trasformare tutto, sempre, in un fuoco di paglia. Non basta limitarsi a indignarsi e a stigmatizzare la violenza: se vogliamo estirpare questi comportamenti, non basta aspettare che sia la vittima a riconoscerli come sbagliati e ad attivarsi, soprattutto se pensiamo che chi subisce violenza spesso non è in grado di percepirla come sbagliata. Molte volte, infatti, la persona non comprende che si tratti di violenza.
Perché ciò accade? Come fa una donna a non capire che sta subendo violenza?
In primis, perché ne esistono molte forme (fisica, psicologica, sessuale, economica), ma anche poiché il violento mette in atto una serie di meccanismi di mantenimento della stessa, che impediscono alla vittima di dare una lettura obiettiva alle dinamiche relazionali in atto. La donna che subisce violenza è totalmente focalizzata su ciò che può non piacere all’uomo violento, per riuscire a prevenire ed evitare ogni possibile esplosione rabbiosa da parte sua. Ella fa molta difficoltà a focalizzarsi su cosa non piace a lei, su cosa sia dannoso per il suo benessere psicologico e fisico. Senza contare il senso di colpa, che l’uomo violento cerca di alimentare in lei, alludendo a frasi del tipo “Sei tu che esageri”, “Non farmi arrabbiare”, “Hai solo da non comportarti così”, “Se mi lasci non so cosa potrei fare”, ecc.
Così come le scuse, le promesse e i doni fatti dopo l’agito violento, comportamenti che tendono a perpetrare il cosiddetto ciclo della violenza e a far sorgere nella donna confusione circa ciò che sta subendo e speranza che il partner possa cambiare.
Come può la società, quindi, cambiare coscienza sulla questione?
Questi aspetti ci fanno capire che quel che deve restare del dibattito sulla violenza di genere è la consapevolezza che è necessario attuare una profonda trasformazione socio-culturale, che sono fondamentali un’educazione strutturata e una sensibilizzazione generale (ancora mancanti soprattutto nelle scuole) all’affettività, alla gestione della rabbia, all’assertività, alla parità di genere e alla cura del benessere psicologico. Bisogna, dunque, assumere un’ottica preventiva. A poco servono le misure repressive che hanno effetto a reato già avvenuto: è importante saper comprendere, saper riconoscere e saper come attivarsi per fronteggiare questa piaga sociale. E questa volta da parte di tutti, senza distinzione di sesso.
Elaborazione a cura di Stefania Albanese
Dott. Alessandro Pairone
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